Ingredienti (per 2 persone)
200 g di cous cous precotto
Acqua (o brodo vegetale)
4 pomodori di medie dimensioni
Sale e pepe q.b.
Olio e.v.o.
Qualche foglia di basilico
Preparazione
Per prima cosa occuparsi della pulizia dei pomodori: tagliarli a un centimetro dal picciolo e poi svuotarli aiutandosi con un cucchiaio. Non buttare la polpa, ma metterla in una padella insieme a un filo d’olio e a qualche foglia di basilico perché sarà il sugo del cous cous. Aggiustare di sale e pepe a piacimento, aggiungere anche del peperoncino qualora piacesse.
Accendere il forno a 180° e posizionare i pomodori sulla teglia rivestita da carta da forno: dovranno “asciugare” un po’. Tenerli controllati in modo tale che non brucino ed eventualmente eliminare l’acqua in eccesso tamponando con un panno carta. Saranno pronti quando la pelle comincerà a raggrinzire e ad ammorbidirsi.
Per fare il cous cous basterà metterlo in un recipiente, mescolarlo con dell’olio e poi coprirlo con dell’acqua salata (o del brodo) portata a bollore. Per evitare che il calore si disperda e che il cous cous non si gonfi bene, vi consiglio di coprirlo con un coperchio o avvolgerlo con della carta d’alluminio. Dovrà rimanere così, senza essere toccato, per 5-7 minuti, poi si potrà sgranare con una forchetta o con le mani. Una volta pronto, aggiungerlo al sugo ricavato dalla polpa dei pomodori e mescolare bene.
Riempire i pomodori con il cous cous (non dimenticare di “chiuderli” con la parte superiore) e riadagiarli sulla teglia di prima, quindi ripassarli in forno per 5-10 minuti. Sono buonissimi anche tiepidi o a temperatura ambiente.

Se fosse un libro
Data l’imbottitura generosa dei pomodori non potevo che scegliere un libro altrettanto ricco e straripante di Storia e personaggi: I miserabili (1862), di Victor Hugo. In questo romanzo storico di ampio respiro – cinque volumi divisi in lunghi capitoli – si mescolano relazioni e vite (perlopiù ai margini della società francese) che invocano a gran voce un cambiamento sociale. La narrazione si muove soprattutto attorno a Jean Valjean, un galeotto che viene liberato dopo 19 anni di detenzione per aver rubato un pezzo di pane, e Cosetta, la bambina che lui adotta dopo che la madre Fantine è morta.
Viviamo in una società grigia; riuscire, ecco l’insegnamento instillato dalla corruzione dominante. Sia detto alla sfuggita, il successo è una cosa piuttosto lurida; la sua falsa somiglianza col merito inganna gli uomini. Per la folla, la riuscita ha quasi lo stesso profilo della supremazia. Il successo, sosia della capacità, sa ingannare per bene la storia.
Tanti altri sono i personaggi che entrano e escono dalla narrazione (lo studente di legge Mario, i locandieri Thénardien): tutti quanti inseriti in un contesto “infernale” che Hugo – con l’intento di comporre una vera e propria epopea riguardante l’intera Francia del tempo – descrive con acceso realismo. L’unicità di questo romanzo va ricercata anche nelle digressioni condotte, con estrema attenzione, dall’autore, il quale si lascia spesso andare ad analisi e opinioni che vanno ben oltre la trama (come nel caso della battaglia di Waterloo, dell’architettura parigina in mutamento, della piaga della miseria che dilagava soprattutto tra i ragazzini). Sul finire del racconto, Hugo prende ancora più spazio per ragionare sul “ruolo delle rivoluzioni nel plasmare società migliori”: uno spunto di riflessione fondamentale, su un cambiamento necessario e possibile, che hanno abbracciato anche autori come Charles Dickens (con Oliver Twist), Elizabeth Gaskell (con Mary Barton) e Harriet Beecher Stowe (con La capanna dello zio Tom).
La suprema felicità della vita è essere amati per quello che si è, o meglio, essere amati a dispetto di quello che si è.
In I miserabili invocare la prosperità sociale significa avere uomini felici e liberi: spero che questi “pomodori imbottiti” possano piacervi così tanto da portarvi tanta felicità.

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