“Frankenstein” di Mary Shelley: dalla notte di Villa Diodati all’immortalità

Quando Mary Shelley ha scritto (il primo) Frankenstein aveva solo 19 anni. Alle sue spalle c’era una famiglia fortemente in sintonia con le riflessioni culturali e sociali dell’epoca, ma anche un’ambiente ancora piuttosto restio a riconoscere le libertà individuali, soprattutto quelle femminili. Il padre, William Godwin, oltre a essere autore di romanzi, era un filosofo politico che si interessava di giustizia e diritti umani; Mary Wollstonecraft, la mamma, aveva pubblicato A Vindication of Rights of Woman (1792) e con le sue parole diventò presto un’antesignana del movimento femminista. Con queste premesse, non è un caso che molta critica abbia visto nel mostro di Frankenstein – e nel suo chiedersi chi sono? – le stesse domande che affliggevano le menti di molte donne del tempo, tra cui la Shelley. Se la mostruosità della creatura era la stessa posizione mostruosa di tutte coloro che ancora non godevano di uguaglianza e rispetto, allora in quel capolavoro non c’era solo la condizione di un’epoca, ma anche la vita della sua autrice, in un tutt’uno di corrispondenze con il protagonista senza nome.

In una società con cui era difficile comunicare e dove era altrettanto complicato avere un ruolo, la creatura rappresentava una sorta di megafono attraverso cui urlare qualsiasi problematicità. Tuttavia, vanno fatte delle precisazioni. La prima edizione del 1818 non è la versione definitiva che leggiamo oggi, ma lo splendido incontro intellettuale tra Mary e il marito Percy (e, volendo, anche di una “storia ginevrina” dal fascino incredibile). Generalmente è concepita come una delle letture autunnali per eccellenza, ma non tutti sanno che Frankenstein, in realtà, ha visto la luce durante un’estate piuttosto anomala del 1816. Almeno, così narra la leggenda racchiusa attorno a Villa Diodati, in Svizzera.

Trascorsi l’estate del 1816 nei dintorni di Ginevra. La stagione fu fredda e piovosa e alla sera ci si riuniva attorno al fuoco scoppiettante e talvolta ci divertivamo a leggere storie tedesche di fantasmi, capitateci in mano per caso. Questi racconti risvegliarono in noi un giocoso desiderio di imitazione. Due altri amici […] e io decidemmo di scrivere una storia ciascuno, basata su un qualche evento soprannaturale. [Da Guida alla letteratura gotica, Fabio Camilletti]

In quell’anno di estate “senza sole” – soprannominata così perché l’eruzione di un vulcano nel Pacifico aveva annerito anche i cieli d’Europa – alcuni celebri scrittori si radunano per trascorrere i giorni sconvolgenti (e a tratti apocalittici) che si prospettano: ci sono Percy Shelley, la compagna Mary, John Polidori, Lord Byron e il suo medico personale. Accompagnati dalla lettura di Fantasmagoriana – una antologia di racconti tedeschi di genere gotico, successivamente tradotti anche in francese e inglese – e ispirati dalle sue storie soprannaturali, il gruppo di presenti decide di intraprendere una sorta di duello letterario per la creazione della migliore storia di fantasmi. Nel giro di un paio di giorni, alla stregua del dottor Victor (in cui si è sempre un po’ rivista), Mary Shelley dona concretezza alla sua immaginazione e se ne esce con Frankenstein, il romanzo che dai suoi inclassificabili esordi si è man mano conquistato popolarità e cuore dei lettori.

I prodromi del successo c’erano già tutti. Il romanzo assorbe e metabolizza una serie di questioni scottanti per la modernità, tra cui l’ipotesi di “intervenire” sull’essere umano arrivando perfino a crearne un doppione. Victor Frankenstein è sia uno scienziato sia un artista creatore in cerca dell’opera perfetta che, suo malgrado, si scontra con il problema dell’imperfezione. Il lettore osservatore, in questo scenario, ha un ruolo fondamentale: attraverso il potere dell’occhio introduce uno sguardo attento e al contempo spaventato dal giudizio altrui (paradossalmente, chi accetta il racconto della creatura è un cieco, mentre chi può vederlo e riconoscerne la mostruosità lo ripudia).

Ora tutto era perduto: in luogo di quella tranquillità di coscienza che mi avrebbe consentito di guardare al passato con soddisfazione e di trarne speranze per il futuro, ero in preda al rimorso e al senso di colpa, che mi facevano precipitare in un abisso di torture, intense come nessuna parola può dire.

Frankenstein tratta di creazione a tutti gli effetti. Mary Shelley riflette la profonda dicotomia tra vita e morte, quindi tra il donare e il togliere. Il “miracolo” della gestazione si legge tra le righe anche nelle curiosità che avvolgono il testo: nove sono i mesi che occorrono a Victor Frankenstein per assemblare il figlio rattoppato e orfano di madre, gli stessi che intercorrono tra la prima e la seconda stesura del romanzo, da agosto 1816 ad aprile 1817. La storia sfida i limiti della conoscenza e infrange i tabù della creazione, ma la sua solida fama affonda le radici anche nella cultura di cui si fa portatrice: non solo in quella romantica (irrequieta e timorosa, unita dal tormento dell’alienazione nel mondo moderno), ma anche nel sapere scientifico, che attecchisce nel dottor Victor e negli studi che persegue (ben delineati nella tradizione dei teatri anatomici e degli esperimenti sull’elettricità di Galvani).

Altra caratteristica peculiare è senz’altro la struttura, dove la divisione in frammenti del mostro è duplicata anche a livello testuale. Mary Shelley scrive una storia che va contro i precetti classici che vogliono un testo organico, per questo “assembla” diversi generi e altrettante voci narranti, eliminando anche quell’onniscienza che prevede un solo narratore a capo della vicenda. Tutto si apre con lo scambio epistolare tra l’esploratore Robert Walton e la sorella Margaret Saville; la lettura poi prosegue con le lettere che contengono un diario; mentre le annotazioni personali, a loro volta, racchiudono il racconto orale di Victor Frankenstein, quello riguardante la genesi delle sue sperimentazioni.

Se, invece di limitarsi a quest’osservazione, mio padre si fosse preso la briga di spiegarmi che i principi di Agrippa erano completamente confutati e che i metodi della scienza moderna erano molto più validi, in quanto più concreti, di quelli, chimerici, della scienza antica, io avrei certamente gettato via Agrippa rivolgendo verso studi più formativi la mia grande passione. […] Quando tornai a casa il mio primo pensiero fu di procurarmi l’opera omnia di quest’autore; poi fu la volta di para Celso e di Alberto magno. Lessi e studiare con piacere le disordinate fantasie di questi scrittori. Ho già detto come avessi sempre nutrito un invincibile desiderio di penetrare i segreti della natura. A dispetto dell’intensa fatica e delle meravigliose scoperte degli scienziati moderni, lo studio delle loro opere minacciava sempre scontento e insoddisfatto. Si dice che Sir Isaac Newton abbia confessato di sentirsi come un bambino che raccoglie conchiglie lungo la riva del vasto inesplorato oceano della verità.quelli tra i suoi successi che io avevo avuto occasione di conoscere apparivano il mio intelletto infantile come apprendisti della stessa arte.

Siamo nel 1797. Il capitano Robert Walton raccoglie sulla sua nave – occupata in un viaggio di esplorazione verso il Polo Nord – un naufrago stremato e ossessionato dalla ricerca di un misterioso nemico. L’uomo rivela di essere lo scienziato svizzero Victor Frankenstein e dopo una lunga reticenza iniziale decide di raccontare la sua incredibile storia (che lui stesso scriverà e riporterà per iscritto per farla conoscere anche alla sorella Margaret). Parte così una vicenda che traccia le origini di Victor e di ciò che l’ha condotto fin lì: dalla folgorazione subìta con le letture di Cornelio Agrippa e Paracelso alla necessità di uscire dai binari del mondo accademico, dall’abbandono della casa paterna dopo la morte della madre agli approfondimenti sulla rigenerazione della vita (su ispirazione di quelli alchemici). Le notti insonni per colpa degli studi febbrili lo conducono verso la creazione di una creatura che si dimostra essere tutt’altro rispetto a ciò che aveva sperato e lo sguardo inorridito lanciato al mostro gli crea seri rimorsi per quanto compiuto. La creatura ha il corpo di un adulto ma il cervello di un neonato che scopre il mondo che lo circonda per la prima volta (e il suo apprendimento ricorda il mito del “buon selvaggio” di Rousseau): impara a parlare ascoltando i discorsi di una famiglia di poveri contadini (i De Lacey); scopre la lettura attraverso dei libri trovati in una valigia. Si tratta di testi che raccolgono la cultura occidentale: Vite di Plutarco; Le rovine di Constantin-François de Chassebœuf, conte di Volney; I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang Goethe); Paradiso perduto di John Milton. 

Una notte durante la mia abituale visita nel bosco vicino, dove raccoglievo cibo per me e legna per i miei protettori, trovai in terra una sacca da viaggio di pelle che conteneva oggetti di vestiario e alcuni libri. Afferrai avidamente la preda, e tornai al mio capanno. Per fortuna i libri erano scritti nella lingua della quale aveva preso gli elementi, erano: Il paradiso perduto, un volume delle Vite di Plutarco, e I dolori del giovane Werther. Questi tesori mi fecero felice; ora, mentre i miei amici erano impegnati nelle loro consuete attività, studiava assiduamente ed esercitavo la mia mente su queste storie.

Dopo l’osservazione, la creatura decide di manifestarsi sperando in una buona accoglienza da parte degli umani che tanto ha ammirato. Ma così non e il loro amaro rifiuto lo segna talmente nel profondo da fargli compiere gesti terribili. Lui e Victor sopportano sulle spalle il peso di enormi perdite; tutto ciò che il mostro chiede – anche per trovare un po’ di pace – è una compagna con cui dividere quella solitudine che sta diventando sempre più opprimente. Victor è inizialmente convinto, ma dopo aver pensato alle conseguenze nefaste che un gesto simile potrebbe scatenare, ossia una nuova progenie di mostri, distrugge l’opera scatenando così la rabbia del suo figlioccio. L’essere senza nome, inevitabilmente, medita vendetta: è intenzionato a distruggere la sua famiglia, proprio come Victor ha fatto con lui.

Mi scoprivo simile, e allo stesso tempo stranamente diverso, dagli esseri dei quali leggevo e ascoltavo le conversazioni.

Mary Shelley indossa il romanzo come se fosse il suo vestito migliore, fatto di un vissuto personale piuttosto travagliato (la scomparsa della sorella, del compagno e dei figli) e dei suoi desideri più reconditi (il ritorno alla vita dalla morte). La lettura del diario è un espediente di molta letteratura ottocentesca (ne è un esempio Dracula), com’anche un modo per avvicinare il lettore al nucleo personale dei personaggi principali. Cosa rende mostruoso il corpo della creatura? Tra le tante cose, il fatto che non corrisponda affatto a una organicità ma a una rappezzatura di diverse parti. Sostanzialmente: la sua unità è costruita a posteriori dal dottor Frankenstein, che cuce insieme dei pezzi provenienti da altri cadaveri. Il suo sogno di sempre – o meglio, da quando si è avvicinato a questo mondo – è quello di ricreare la vita  come un’abile demiurgo. Ciò che si aspetta di vedere nel momento in cui il mostro apre gli occhi è la creatura più bella mai esistita, ma questo paradigma di perfezione e bellezza è destinato a scontrarsi contro una totalità che va interamente ripensata, uno shock percettivo che mette lo scienziato di fronte a una consapevolezza ben diversa: il difetto ontologico della “rianimazione corporale”. Il finale non è solo un monito a prestare attenzione quando si oltrepassano i confini del sapere, ma anche un messaggio profondo all’umanità insita in ognuno di noi.

E però funzionava: per quanto mostruoso e impressionante, quella creatura si muoveva, era vivo, era capace di parlare (e non ancora smesso di farlo). Decisamente, Mary non avrebbe commesso l’errore di Victor. Nel romanzo, di fronte alla morte del suo Dio, la Creatura saltava dalla nave si perdeva nei flutti scuri dell’Artico, senza che al lettore venisse fornito alcuna certezza sul suo fato. Lei, invece, si sarebbe presa cura della sua progenie, e le avrebbe consentito di andarsene per il mondo: all’altezza cronologica del 1831, del resto, Mary sapeva fin troppo bene che il mare in tempesta non perdona, ma sapeva anche che i libri sono ben più coriacee delle persone (e anche dei mostri). I libri – certi libri – ci sopravvivono: che lo vogliamo o no. [Da Guida alla letteratura gotica, Fabio Camilletti]

5/5

PAROLE CHIAVE

Il moderno Prometeo: è il sottotitolo del romanzo e allude all’aspirazione degli scienziati di poter fare tecnicamente qualsiasi cosa, anche sfidare i limiti imposti. Prometeo ruba il fuoco agli Dei per darlo agli uomini; sono tantissimi i riferimenti nel testo a questo elemento («Brucerò fino alla cenere»; «Presto queste pene ardenti si consumeranno»).
Le narrazioni: Il paradiso perduto ha un ruolo familiare, da questa lettura il mostro impara che esiste la famiglia e un rapporto tra padre e figlio (che però lui non avrà mai). Le Vite e Le rovine degli imperi hanno una funzione politico-sociale: del primo riprende le esistenze dei grandi che hanno “costruito” il mondo, del secondo discerne la Storia così come si è evoluta. I dolori del giovane Werther riguardano l’interiorità: la creatura scopre che esistono i sentimenti – come l’odio e l’amore – e quanto essi siano problematici da gestire.
Sogno: anche la dimensione onirica fa parte dell’atmosfera leggendaria che ha investito Frankenstein. Si racconta che Mary Shelley rimase particolarmente colpita da alcune scene di Fantasmagoriana, tant’è che la mattina successiva alla lettura condivisa con gli amici annunciò di aver trovato la storia che cercava e che era intenzionata a cominciarla proprio quel giorno. Era una storia destinata a entrare nel cuore della letteratura mondiale.
«Sarò con te il giorno delle tue nozze»: come tutti sanno, Frankenstein non è il nome della creatura, ma del suo creatore. Ci sarebbe molto da discutere riguardo questo aspetto: molti studi critici hanno suggerito una lettura più approfondita del testo per comprendere, in verità, che il vero mostro non è altro che Victor.
Il primo Frankenstein: dell’opera esistono varie versioni, tutte quante rimaneggiate fino ad arrivare a quella che leggiamo oggi. Quando Mary Shelley ha scritto di getto la prima stesura, lo stile narrativo – sebbene carente in fatto di punteggiatura e sintassi – era già ben evidente. Bozza dopo bozza, grazie anche all’aiuto di Percy Shelley (che, poco più ventiseienne, aveva già scritto Alastor, L’inno alla bellezza intellettuale e Mont Blanc), è diventato il capolavoro intramontabile – la fiaba nera – che si conosce oggi.

PER SAPERNE DI PIÙ

Titolo: Frankenstein (Edizione critica)
Autore: Mary Shelley
Editore: Lindau
Lunghezza: 400 pagine
Prezzo: 24 euro
Trama: La prima edizione critica in lingua italiana del classico moderno di cui si celebra quest’anno il bicentenario della pubblicazione (1818, originariamente anonima), annotata e collazionata in apparato con il testo dell’ultima edizione (1831). Fornita di ampio commento, questa edizione rappresenta un «punto fermo» nella vicenda del capolavoro maryshelleyano in Italia. Interviene infatti a colmare, in termini di leggibilità e di approfondimento, una reale mancanza dell’editoria del nostro paese: troppe edizioni, tutte in varia misura lacunose e approssimative, che hanno in buona misura condizionato – fino ad oggi – la fortuna di questo capolavoro.
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Una replica a ““Frankenstein” di Mary Shelley: dalla notte di Villa Diodati all’immortalità”

  1. […] Seducente, mondano e un po’ dandy. La fortuna del Vampiro di John Polidori – che irrompe sulla scena letteraria nell’aprile del 1819 – non si deve solamente alle caratteristiche della creatura  parassitaria protagonista (le stesse che poi si replicheranno in Dracula), ma anche alla leggenda costruita attorno al romanzo: una storia che abbraccia tanti testi scritti nello stesso periodo – tra cui Frankenstein di Mary Shelley, Ode su un’una greca di John Keats, Hellas di Percy Bysshe Shelley – e un’affascinante gara di racconti gotici avvenuta in Svizzera, a Villa Diodati (per saperne di più, clicca qui).  […]

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