10 maggio 1933: i roghi nazisti dei libri

Sono certo che pochi anni di governo politico e sociale nazionalsocialista porteranno ricche innovazioni nel campo della produzione artistica e grandi miglioramenti nel settore rispetto ai risultati degli ultimi anni del regime giudaico. […] Per raggiungere tale fine, l’arte deve proclamare imponenza e bellezza e quindi rappresentare purezza e benessere. 

Queste parole, pronunciate da Hitler nel 1935 in occasione del Congresso della Cultura, definiscono perfettamente uno degli obiettivi che il Führer si era posto per il suo Reich: l’epurazione di tutto ciò che, presumibilmente, si poneva come ostacolo alla formazione di una grande e perfetta Germania. La sua idea primaria era quella di creare una società ben organizzata in cui l’arte rappresentasse quello strumento in grado di unire le masse e di suscitare nel popolo tedesco un grande senso di appartenenza. Il progetto culturale di Hitler non lasciava spazio ad alcuna forma di personalità o soggettività: erano etichettate come “malate” tutte quelle opere che esprimevano sentimento o complessità, ma anche qualsiasi altro aspetto non comprensibile a primo impatto e fuori dai parametri che il regime imponeva. Per contrasto, erano favorite invece le architetture lineari e solenni, praticamente tutto ciò che avesse anche l’importante compito di manifestare la grandiosità e l’infallibilità della dittatura: «sono proprio questi edifici che aiuteranno a unire più che mai il nostro popolo da un punto di vista politico e a renderlo più forte». Appena salito al potere, il Führer cercò di fondare un paese culturalmente eccezionale, ma soprattutto puro e “pulito”: da uomo di cultura e artista – così si definiva -, prima che da politico, voleva ridare valore e dignità al popolo tedesco, tutto questo attraverso un percorso che prevedesse anche una considerevole rivalutazione dell’arte in ogni sua forma. 

Queste parole, pronunciate da Hitler nel 1935 in occasione del Congresso della Cultura, definiscono perfettamente uno degli obiettivi che il Führer si era posto per il suo Reich: l’epurazione di tutto ciò che, presumibilmente, si poneva come ostacolo alla formazione di una grande e perfetta Germania. La sua idea primaria era quella di creare una società ben organizzata in cui l’arte rappresentasse quello strumento in grado di unire le masse e di suscitare nel popolo tedesco un grande senso di appartenenza. Il progetto culturale di Hitler non lasciava spazio ad alcuna forma di personalità o soggettività: erano etichettate come “malate” tutte quelle opere che esprimevano sentimento o complessità, ma anche qualsiasi altro aspetto non comprensibile a primo impatto e fuori dai parametri che il regime imponeva. Per contrasto, erano favorite invece le architetture lineari e solenni, praticamente tutto ciò che avesse anche l’importante compito di manifestare la grandiosità e l’infallibilità della dittatura: «sono proprio questi edifici che aiuteranno a unire più che mai il nostro popolo da un punto di vista politico e a renderlo più forte». Appena salito al potere, il Führer cercò di fondare un paese culturalmente eccezionale, ma soprattutto puro e “pulito”: da uomo di cultura e artista – così si definiva -, prima che da politico, voleva ridare valore e dignità al popolo tedesco, tutto questo attraverso un percorso che prevedesse anche una considerevole rivalutazione dell’arte in ogni sua forma. 

Adolf Hitler, più di qualsiasi altro leader storico, attribuiva molta importanza alla cultura, e nel pieno della sua formulazione teorica aveva connesso il concetto di arte anche all’idea di razza.

Quindi la razza che etichettiamo come ariana è stata l’ispiratrice di tutte le successive grandi culture […]. Sappiamo che l’Egitto è stato portato al suo apice culturale dagli immigrati ariani, così come la Persia e la Grecia. Tali immigrati erano ariani biondi e con gli occhi azzurri, e sappiamo che oltre a questi Stati non ve ne furono altri dello stesso livello culturale. 

In questo discorso del 1920 a Monaco, un giovane politico solo agli inizi della sua ascesa, non faceva altro che spiegare alla folla le sue verità dogmatiche. Sostanzialmente: una grande razza doveva possedere necessariamente anche una grande cultura. Gli ebrei non rientravano nei suoi progetti: non solo non rispettavano l’arte in quanto tale, ma erano così privi di creatività e originalità da considerarla solo un mero strumento di guadagno. Erano un popolo disorganizzato e privo di un paese proprio, e come tali Hitler li considerava letteralmente dei distruttori da contrapporre agli ariani, simboli e portatori di cultura per eccellenza. 

Un primo attacco alla presunta corruzione che secondo il Führer stava vessando il paese tedesco avvenne nel 1933, quando Goebbels – Ministro della Propaganda e dell’Informazione durante il regime nazista e fedelissimo di Hitler – cominciò una campagna di epurazione in ogni campo della cultura: dai libri degli autori “scomodi” e non tedeschi, agli artisti considerati “degenerati”, le cui colpe (presunte) erano solamente quelle di aver contribuito all’imbarbarimento della purezza germanica. Tutto ciò prese il nome di “Azione contro lo spirito non tedesco”, e l’unico elemento che poteva sostenere questo progetto era il fuoco. Nei roghi comuni – il più celebre fu quello del 10 maggio in cui vennero distrutti circa 25.000 volumi – finirono le opere letterarie di scrittori ebrei, marxisti e pacifisti: Albert Einstein, Alfred Kerr, Bertolt Brecht, Charles Darwin, Émile Zola, Erich Maria Remarque, Ernest Hemingway, H. G. Wells, Hermann Hesse, Jack London, James Joyce, Marcel Proust, Robert Musil e Sigmund Freud solo per citarne alcuni (cliccate qui, per l’elenco completo). Lo stesso Goebbels, in un discorso pronunciato proprio in occasione dei Bücherverbrennungen (in italiano “roghi di libri”), elogiò i giovani studenti nazisti che, spontaneamente, diedero assalto alle biblioteche pubbliche e private al fine di raccogliere i testi e bruciarli: 

Il trionfo della rivoluzione tedesca ha chiarito quale sia la strada della Germania e il futuro uomo tedesco non sarà un uomo di libri, ma piuttosto un uomo di carattere ed è in tale prospettiva e con tale scopo che vogliamo educarvi. Vogliamo educare i giovani ad avere il coraggio di guardare direttamente gli occhi impietosi della vita. Vogliamo educare i giovani a ripudiare la paura della morte allo scopo di condurli a rispettare la morte. Questa è la missione del giovane e pertanto fate bene, in quest’ora solenne, a gettare nelle fiamme la spazzatura intellettuale del passato.

Tra marzo e giugno del 1933, andarono distrutti centinaia di migliaia di libri, con una perdita culturale incalcolabile ancora oggi. La censura di stato cercò di coinvolgere l’intera popolazione tedesca, istigandola con violenza all’idea che la Germania potesse trasformarsi in una forza in grado di allontanare e abbattere qualsiasi forma di debolezza. L’insistente convinzione hitleriana vedeva nella cultura un grande strumento capace di attrarre e coinvolgere le persone a proprio piacimento. 

L’arte riflette l’immagine più chiara ed immediata della vita spirituale di un popolo. Essa esercita un grandissimo ascendente sulle masse a livello consapevole e inconsapevole […]. Nelle sue migliaia di manifestazioni e influenze, giova all’intera nazione […]. 

I nazisti credevano molto nel potere della diffusione dell’ideologia per mezzo delle persone: non solo distrussero diverse opere di fronte al pubblico come una sorta di “propaganda visiva”, ma pensavano che questo macabro spettacolo potesse indurre i tedeschi a guardare con disprezzo tutta la cultura esterna alla deutsche Kunst. Non è un caso che fossero proprio le opere d’arte surrealista – volutamente assurde nella loro rappresentazione pittorica – quelle utilizzate maggiormente come esempio per dimostrare quanto certi pittori distorcessero la realtà con l’obiettivo di intaccare, di conseguenza, anche la presunta bellezza del popolo germanico. Questo tremendo lavoro di pulizia durò fino al 1944. Per gli artisti che decisero di rimanere in Germania iniziò un periodo di proibizionismo che comportò, prima, la repentina messa al bando con l’etichetta di “degenerati” e, poi, la totale emarginazione con l’assoluto divieto di produrre opere, esporle nei musei, e anche di insegnare in scuole o accademie d’arte. Il modernismo era un concetto che andava evitato più della peste, e intollerabili erano anche le influenze culturali che provenivano dall’esterno. La cultura ariana germanica era la sola e unica forma di espressione che poteva avere spazio e diffusione. Quello che veniva a mancare e addirittura annullato, oltre alla vera e propria opera materiale, era soprattutto l’essenza primaria dell’artista o dello scrittore, praticamente la sua libertà di potersi esprimere attraverso i propri lavori.

Teatro, arte, letteratura, cinema, stampa, perfino manifesti e vetrine vanno ripuliti da tutte le espressioni del nostro mondo in decomposizione e devono essere poste al servizio dell’ideale etico, politico e culturale.

L’apice massimo della cultura, secondo il Führer, si poteva raggiungere solamente con l’isolamento dell’arte nazionale e l’esclusione di quella internazionale, quest’ultima concepita addirittura alla stregua di una malattia da debellare. Ma questo ideale di bellezza era tutto fuorché perfetto e privo di contraddizioni: se da una parte Hitler esortava gli artisti tedeschi a manifestare la loro cultura artistica per elogiare le qualità dell’intera nazione, dall’altro però non prevedeva alcun tipo di libertà estetica, costringendo per altro il pubblico ad apprezzare e conoscere solo quell’arte che lui stesso gradiva.

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