55 giorni di piombo

Gli anni di piombo rappresentano per l’Italia un periodo molto travagliato e critico della storia contemporanea: non solo difficili da affrontare dal punto di vista politico, ma anche socialmente ricchi di contestazioni, ideologie ed estremismi. Il capo e la coda di questo periodo “caldo” possono essere considerati, simbolicamente, l’attentato di Piazza Fontana il 12 dicembre del 1969 – con la devastante bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano – e la strage alla stazione di Bologna, il 2 agosto del 1980. Insomma, una stagione di sangue che alla fine conteggerà 428 morti e all’incirca 2000 feriti.

Questo è proprio il contesto in cui si inserisce il lavoro e la figura di Aldo Moro, autore di una svolta politica che lo renderà, suo malgrado, vittima di un terrorismo che invocava il cambiamento anche a costo di atti tragicamente estremi. Il 16 marzo del 1978 poteva essere il giorno della svolta che avrebbe permesso di gettare le basi per una politica italiana più moderata e aperta. Poteva, ma non lo è stato. Mentre il governo Andreotti stava per ottenere la fiducia in Parlamento con i voti del Partito Comunista Italiano – un fattore del tutto nuovo per lo scenario politico del Paese -, il protagonista e artefice di questo progetto di solidarietà nazionale, il leader della Democrazia Cristiana Aldo Moro (che tra l’altro, si stava recando in auto verso la Camera dei Deputati per il voto), è stato intercettato in via Fani, a Roma, da un commando delle Brigate Rosse e sequestrato. Nell’agguato sono stati uccisi gli uomini della sua scorta: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera, Raffaele Iozzino e Francesco Zizzi. Caso vuole – come poi ha confermato anche uno dei mandanti durante il processo, Morucci – che il 16 marzo era solo il primo giorno “utile” per il rapimento, poi andato a buon fine.

Sono le 9.25 del mattino, e la notizia del sequestro si sta già diffondendo – anche se in maniera confusa – nelle trasmissioni televisive e radiofoniche tramite le edizioni straordinarie. La conferma e la rivendicazione del rapimento arrivano alle 10:10 del mattino, con un comunicato alla redazione centrale dell’Ansa firmato proprio dalle BR:

Questa mattina abbiamo sequestrato il presidente della DC, Moro, ed eliminato la sua guardia del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Seguirà comunicato. Firmato Brigate Rosse. 

L’Italia si ferma, il Parlamento e il governo sono sotto shock; il clima che si respira fin da subito è quello di un’emergenza nazionale. L’atmosfera di quel giorno verrà descritta in seguito, ed emergerà ancora meglio nelle interviste ai brigatisti coinvolti nell’operazione (solo per citare un titolo: “Moro sequestrato. La scorta uccisa: sono state le Brigate Rosse”). C’era la sensazione che le cose non sarebbero state più le stesse. 

Moro, in quegli anni, è senza dubbio un personaggio “scomodo” per la sua visione moderata e associativa della politica: il suo obiettivo era un punto di incontro di partiti – quello socialista, democristiano e comunista – differenti per ideali e programmi, ma che insieme potevano contribuire a una svolta di “grande respiro” per il sistema parlamentare italiano. Un progetto ambizioso, ma allo stesso tempo malvisto da chi pensava avrebbe portato a vanificare il lavoro di alcune forze politiche nel loro ruolo essenziale di oppositrici. Alcuni hanno supposto addirittura che Aldo Moro fosse soltanto il martire di un grosso ideale rivoluzionario. Bonisoli, uno dei rappresentanti al vertice del gruppo terroristico “rosso”, ha affermato in un’intervista:

Da tempo avevamo l’idea fissa di fare quello che noi chiamiamo il contro-processo: prendere cioè una grossa personalità dello Stato, o un rappresentante di questo Sim (Stato imperialista delle multinazionali), e porci come contraltare al grande processo che veniva fatto alle Brigate Rosse attraverso i compagni del cosiddetto nucleo storico, i primi che furono arrestati. 

Da qui la richiesta, attraverso i comunicati, della liberazione di alcuni dei brigatisti arrestati in cambio della vita dell’Onorevole, la possibilità di vedere un’altra figura politica al posto del leader della DC (si cominciò con Andreotti) e l’occasione di restituire quest’ultimo alla famiglia ancora vivo:

L’obiettivo primo era quello di realizzare questo grande scacco allo Stato, realizzare questo grande contro-processo e porci come punto di riferimento per tutta la variegata area della lotta armata. Noi avevamo l’ambizione di costituirci in partito e quindi come punto di riferimento di tutta questa area. [..] Quanto alla decisione di uccidere Moro, anche quella poteva essere contemplata a seconda degli sviluppi dell’azione).

Per Aldo Moro incominciano 55 giorni di sequestro vissuti tra lettere, trattative e comunicati, ma che troveranno l’amaro e triste epilogo il 9 maggio del 1978, quando verrà rinvenuto cadavere nel cofano di una Reunalt rossa. Quello che appare evidente fin da subito è che lo statista sembra essere stato abbandonato al suo destino, soprattutto dalla forza politica di cui era leader. Nelle missive che l’Onorevole scrive dalla “prigione del popolo” a Zaccagnini, segretario del partito, emerge tutto il suo grande sconforto: 

Se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia d’Italia. Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul paese. Ricorda in questo momento la tua insistenza per avermi presidente del Consiglio nazionale, per avermi voluto partecipe e corresponsabile nella fase nuova che si apriva o che si profilava difficilissima. Ricorda la mia fortissima resistenza soprattutto per le ragioni di famiglia a tutti note. Ed eccomi qui sul punto di morire per averti detto di sì e per aver detto sì alla DC. Tu hai dunque una responsabilità personalissima. Il tuo sì o il tuo no sono decisivi. Ma sai pure che, se mi togli alla famiglia, l’hai voluto due volte. Questo peso non te lo scrollerai di dosso più. Che Iddio ti illumini, se la pietà prevale, il paese non è finito. 

Aldo Moro sta solo cercando di salvare se stesso. I toni che traspaiono dalle sue parole diventano sempre più sentiti e concitati man mano che proseguono le comunicazioni, e alla maggioranza della DC viene attribuita la gran parte della responsabilità per la “condanna a morte del prigioniero”. Il 5 maggio, il comunicato n.9 delle BR annuncia con fermezza e decisione l’ultimo atto di questo pugno di ferro: «Concludiamo la battaglia iniziata il 16 marzo eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato».

La risposta dell’Onorevole a quella che sembra essere una grande indifferenza non si fa attendere, e la lettera che ne esce, più che un addio, è una riserva di polemiche e rabbia: 

Muoio, se così desidera il mio partito, nella pienezza della mia fede cristiana e nell’amore immenso per una famiglia esemplare che io adoro e spero di vigilare dall’alto dei cieli. […] Io non desidero intorno a me gli uomini del potere. […] Se tutto questo è deciso, sia fatta la volontà di io. Ma nessun responsabile si nasconda dietro l’adempimento di un presunto dovere. E non mancano di certo le polemiche nei confronti del partito che lo ha abbandonato a se stesso, considerando la sua vita il giusto prezzo da pagare: Non mi resta che constatare la mia completa incompatibilità con il partito della Democrazia Cristiana. Rinuncio a tutte le cariche, mi dimetto dalla Democrazia Cristiana. 

Il 9 maggio del 1978, Moro viene ritrovato assassinato nel cofano di una macchina in via Caetani. Il luogo del ritrovamento non è solamente un atto provocatorio, ma anche il tragico simbolo di quel “compromesso storico” perseguito dalla DC e dal suo (ormai ex) leader: emblematicamente a metà tra Piazza del Gesù, sede della Democrazia Cristiana, e via delle Botteghe Oscure, dove era situata la sede nazionale del Partito Comunista Italiano. «Così, la Democrazia Cristiana paga con la fine del suo presidente il prezzo più alto», ha scritto Moro in una delle sue ultime lettere, quasi anticipando le conseguenze: «questo bagno di sangue non andrà bene né per Zaccagnini, né per Andreotti, né per la DC, né per il paese». Dopo il rapimento e la successiva uccisione dello statista, per il partito comincia una fase di declino che lo porta a perdere quella forza e quella egemonia conquistate a partire dal 1948. Questa di Aldo Moro è senza dubbio una vicenda che lascia grande spazio alle interpretazioni e alle opinioni. Molte sono state le opere che si sono dedicate nel corso del tempo, direttamente o indirettamente, a quello che, a distanza di anni, rimane ancora un caso pieno più di dubbi che di certezze. All’apice della produzione letteraria si inserisce sicuramente il ricco pamphlet di Sciascia, L’Affaire Moro: un libro carico di informazioni, rimandi letterari e, come riportato nella quarta di copertina, «scritto a caldo nel 1978» sulla scia di quello che si rivelerà essere uno dei più orribili avvenimenti della storia italiana. Un’opera osteggiata da molti per le sue prese di posizione chiare e personali, ma alla quale si riconosce un grande punto di vista intellettuale e informativo riguardo il complicato rapimento del rappresentante della Democrazia Cristiana. Inizialmente demonizzato, L’Affaire Moro ha acquisito valore solo nel tempo. Lo stesso Sciascia ha rivelato in un’intervista al Corriere della Sera: 

Già me le sento le cose che diranno. Che sto con Craxi, che faccio politica. La verità è che io non sto con Craxi, sto con Moro, quel Moro che, politicamente, ho sempre avversato, e che oggi voglio difendere. Bernanos diceva che a un certo punto uno scrittore deve scegliere tra il conservare la fiducia dei lettori o il perderla; e che preferiva perderla anziché ingannarli. Faccio anch’io questa scelta. 

A scanso di equivoci, il libro si prefigge di essere una decisa e consapevole analisi degli stati d’animo – in bilico tra vita e morte – vissuti dallo statista durante il mese e mezzo di prigionia. In quei 55 giorni, Aldo Moro ha scritto, in totale, un’ottantina di lettere. Sciascia, per il suo scrupoloso lavoro, ne ha avute a disposizione solo una minima parte, circa trenta, perché la restante è stata rinvenuta solo nel corso degli anni successivi. Alcuni hanno definito le missive come “l’opera di un pazzo” o “condizionate dalle stesse BR”, eppure lo scrittore siciliano bypassa queste opinioni e si dedica a una decifrazione che ha il merito di essere anche un’imponente lavoro di empatia: cercare di capire Moro, arrivare fino a dove gli “amici” democristiani e le istituzioni politiche in generale non sono stati in grado di spingersi. Sciascia prende le sue parole e le analizza quasi a scavarci dentro, come se al loro interno cercasse una verità che, ancora tutt’oggi, risulta  amaramente inafferrabile. Il suo intento? Probabilmente quello di trovare un punto di incontro tra il politico enigmatico e cupo e l’ostaggio sentimentale e diretto, spogliato del suo ruolo di figura istituzionale per vestire i panni di essere umano. Leggendo L’Affaire di Sciascia si capisce come i sequestrati, in realtà, fossero due: lo statista da una parte e la sua famiglia dall’altra, anche quest’ultima vittima di uno Stato incapace, volente o nolente, di ascoltarla:

Sappia la delegazione democristiana, sappiano gli onorevoli Zaccagnini, Piccoli, Bartolomei, Galloni e Gaspari che con il loro comportamento di immobilità e di rifiuto di ogni iniziativa proveniente da diverse parti ratificano la condanna a morte di Aldo Moro. [Da una lettera della famiglia Moro]

Da una trascrizione della telefonata tra un brigatista e Tritto, amico della famiglia, riportata nelle ultime pagine del libro, in quella situazione non sembra mancare neppure l’umanità: i toni, sebbene la tragedia stia ormai per compiersi, sono pacati e tranquilli, quasi di rispettosa vicinanza. Il “carceriere” è paziente con l’interlocutore, si scusa, chiama più volte la vittima “Onorevole” e “Presidente”, fa trasparire un senso di pietà tale da far apparire quell’uccisione come un destino non voluto e ingiusto, dettato piuttosto dalle circostanze. Nonostante tutti gli interrogativi ancora aperti sul caso, appare certo che il clima in cui si è inserita l’attività di Aldo Moro sia stato di grande scontro. Lo sono dimostrazione pure gli slogan che circolavano in quegli anni, carichi di cattiveria e durezza: «Rinunciare alla violenza vuol dire rinunciare a nascere storicamente, significa rinunciare a cambiare il mondo» oppure «La violenza paga, la violenza è sempre politica» o ancora «La distruzione è gioia continua». Ma lo palesa anche la stessa mentalità delle BR, sempre dall’intervista a Bonisoli: 

Noi eravamo già nell’ottica dello scontro violento. Il discorso della guerra veniva battuto e ribattuto nei comunicati e faceva parte del nostro programma di allora. Pensavamo di potere comunque reagire, nella prospettiva di una rivoluzione che si pensava violenta, cruenta, a livello di guerra civile, e non ci si preoccupava di una reazione dello Stato, che avrebbe a sua volta innescato, da parte nostra, una risposta ancora più forte. […] Quella che vinceva sempre era l’astrazione, l’astrazione dell’idea della rivoluzione. La rivoluzione prevedeva i morti da una parte e dall’altra, prevedeva scontri cruenti, e nella misura in cui uno accettava questo tipo di scelta era pronto a tutto. 

Curiosità

In quegli anni, anche il cinema sente il bisogno di documentare le pulsioni rivoluzionarie e il clima sovversivo che si stava vivendo. In un interessante parallelo che coinvolge schermi cinematografici e avvenimenti storici, sono stati molti i film che hanno deciso di dedicare minuti e pellicole alla vicenda del “Presidente”. Tra questi si inseriscono sicuramente Todo modo e Il caso Moro, entrambi con protagonista il grandissimo Gian Maria Volontè. Le due pellicole hanno dato una propria (e decisamente diversa) rappresentazione di Aldo Moro: il primo in una maniera quasi censurabile, il secondo come vittima inconsapevole delle ambigue trame tra politica e potere. Todo modo (1976) di Elio Petri – che trae ispirazione dall’omonima opera letteraria di Leonardo Sciascia, autore del già citato Affaire Moro – è una riproduzione senza mezze misure del contesto politico di quegli anni e  una visione del clima fatto di corruzione e ambiguità che si respirava. L’ambientazione si svolge interamente in un eremo-albergo, costruito nel sottosuolo di una pineta, nel quale si tengono dei corsi di “esercizi spirituali” a cui partecipano politici, funzionari e persone molto influenti. Qui, tra uomini corrotti e incontri per la spartizione del potere, cominciano ad accadere delitti inspiegabili a cui tutti, compreso il magistrato chiamato per le indagini e l’uomo denominato “Presidente”, cercano di dare un colpevole. Il film, carico di simbolismo e significati nascosti, è a dir poco inquietante: potrebbe essere considerato un vero e proprio horror sulla società italiana e sulla Democrazia Cristiana, ma è anche il racconto agghiacciante, a tratti ironico, della amara fine di una classe dirigente. Volontè si rifà a Moro in un’interpretazione malinconica e grottesca, nella quale è reso come il carnefice che ha massacrato il mondo politico – e la DC in particolare -, a causa delle sue “aperture” e del suo vano tentativo di salvare il paese. La pellicola è strutturata secondo diverse parti introdotte da cartelli esplicativi, come una sorta di Via Crucis politica (evocativo, a questo proposito, è anche l’ascensore che nella sua discesa ricorda un percorso verso gli inferi) in cui il “Presidente” viene rappresentato come colui che dovrà portare la croce nel calvario della mediazione, ma che alla fine cadrà vittima del suo stesso gioco di potere. Già nel 1976, Petri sembra profetizzare ciò che sarebbe successo due anni dopo, in un’intuizione che non solo leggerà il futuro della DC e del suo leader, ma che rimodellerà tristemente pure l’intera politica. Lo stesso regista ha affermato: 

Ho girato il film con l’idea che il responsabile fosse M, e che lui stesso poi ordina la propria esecuzione. (…) Si può dire che la verifica che l’attuale gruppo democristiano sta conducendo da qualche anno, sembra proprio come un esercizio spirituale, predeterminato per la sua condanna, ossia per la sua estinzione. 

Di tutt’altro stampo è la versione del Moro pensato da Giuseppe Ferrara ne Il caso Moro (1986) e tratto dal libro di Robert Katz I giorni dell’ira. Il film appare come una consacrazione del personaggio come vittima del terrorismo “rosso”, e quindi una sorta di riscrittura della visione goliardica offerta da Petri nella seconda metà degli anni Settanta. La pellicola tratta sostanzialmente i 55 giorni del leader della DC nella cosiddetta “prigione del popolo” – dal rapimento in via Fani il 16 marzo del 1978 al ritrovamento del cadavere il 9 maggio dello stesso anno, in via Caetani. L’obiettivo di Ferrara è sostanzialmente quello di seguire, con acuta schematicità, le tappe principali di quel tormentato periodo attraverso un doppio sguardo: quello dei rappresentanti della scena politica di quegli anni e quello delle Brigate Rosse, animate da un senso rivoluzionario di cambiamento. Il caso Moro è più un “documentario”, molto attento ai dettagli (come si evince anche dall’accuratezza del regista nella rappresentazione delle somiglianze fisiche dei personaggi e degli ambienti), piuttosto che una interpretazione filmica. Il tocco emblematico dell’intera pellicola va ricercato sicuramente nel finale, con il simbolico fermo-immagine del corpo dello statista ucciso accompagnato dalle parole presenti nella sua ultima lettera: «Per una evidente incompatibilità, chiedo che ai miei funerali non partecipino né autorità dello stato né uomini di partito. Chiedo di essere seguito solo dai pochi che mi hanno veramente voluto bene». Ancora più strana, quasi anomala – se così si può dire – è la rappresentazione che si decide di dare alle Brigate Rosse: “sentimentalmente umane”, e solo colpevoli di aver dovuto portare a compimento un terribile disegno orchestrato, in realtà, dalle forze politiche.

Per saperne di più

L’AFFAIRE MORO
Autore: Leonardo Sciascia
Editore: Adelphi
Lunghezza: 196 pagine
Prezzo: 11 euro
Trama: Il libro di Sciascia è stato scritto “a caldo” nel 1978. Mentre, in una gara di codardia, i politici italiani, nonché i giornalisti, si affannavano a dichiarare che le lettere di Moro dalla prigionia erano opera di un pazzo o comunque prive di valore perché risultanti da una costrizione, Sciascia si azzardò a “leggerle”. Riuscì in tal modo a ricostruire una intelaiatura di pensieri, di correlazioni, di fatti che sono, fino a oggi, ciò che più ci ha permesso di avvicinarci a capire, un episodio orribile della nostra storia. Presentando il libro nella edizione del 1983, Sciascia scriveva: “questo libro potrebbe anche esser letto come opera letteraria”. Ma l’autore (membro della Commissione parlamentare d’inchiesta) lo ha vissuto come “opera di verità”.
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SCHERMI DI PIOMBO
Autore: Christian Uva
Editore: Rubettino
Lunghezza: 284 pagine
Prezzo: 18 euro
Trama: Il libro ripercorre la stagione degli anni di piombo secondo una prospettiva inedita, quella offerta dalla “lente” cinematografica. L’itinerario si snoda attraverso l’articolata e sofferta relazione tra il cinema e i terrorismi, nel contesto più generale della violenza politica nell’Italia degli anni ’70. Nell’intento di guardare la realtà per come il grande schermo la rappresenta, si vuole affrontare la “tragedia della ragione e della rabbia” che ha aperto la via alla lotta armata, esaminandone le diverse declinazioni ideologiche, le implicazioni umane e psicologiche, le conseguenze sul piano sociale e politico, avvalendosi dell’ampia mole di film legati a vario titolo a quella stagione. Se anche il grande schermo si è talvolta conformato a un “pensiero unico” che si è sottratto a un reale confronto con le motivazioni di quel fenomeno, la filmografia presa in esame testimonia l’ampio sforzo del cinema popolare, come di quello colto, di fotografare e interpretare le tensioni e i drammi che hanno sconvolto il Paese sotto forma di violenza politica tra “opposti estremismi” di vero e proprio terrorismo, di stragismo e di piani eversivi originati da sezioni deviate dello Stato. Una serie di saggi monografici di giovani studiosi, testimonianze di ex terroristi, scrittori e cineasti sono parte integrante del volume, contribuendo a mettere a fuoco le zone più nevralgiche del dibattito, approfondendo e problematizzando alcuni nodi non ancora sciolti della storia recente italiana.
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LA NOTTE DELLA REPUBBLICA
Autore: Sergio Zavoli
Editore: Mondadori
Lunghezza: 531 pagine
Prezzo: 16 euro
Trama: Per la prima volta la storia degli anni di piombo narrata in prima persona dai veri protagonisti, i terroristi neri e rossi che hanno fatto la scelta della lotta armata. Dalla contestazione del ’68 allo stragismo, dalla nascita delle BR al sequestro Moro, tutti gli episodi più tragici di un’epoca che ha straziato la coscienza del nostro paese. Un’inchiesta senza pari per complessità e proporzioni, condotta da uno dei grandi nomi del giornalismo televisivo italiano.
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6 risposte a “55 giorni di piombo”

  1. Complimenti, Valentina, per questo articolo che rivela il tuo grande sforzo di riuscire a riassumere una vicenda molto complicata. Non è facile parlare del caso Moro, come ben tu dici, complicato da una infinita serie di interpretazioni di parte e da interessi politici. Penso che sia un ottimo punto di partenza soprattutto per chi quegli anni non li ha vissuti direttamente; la storia, come si sa, si scrive a distanza dai fatti e ora è venuto il tempo di farlo. Io quegli anni li ho vissuti; ero in seconda liceo, erano gli anni delle contestazioni studentesche, e ricordo bene quei 55 giorni in cui siamo rimasti col fiato sospeso per cercare di capire dove la vicenda avrebbe portato il paese. Per la mia generazione, gli anni di piombo sono un ricordo che brucia ancora, tuttora lontano dalla verità.

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    1. Questo è un commento che mi gratifica molto! Io quegli anni non li ho vissuti, però ne ho sentito molto parlare dai miei genitori; ho cercato di rendere l’idea del “clima” e di spiegarli anche a chi non li avesse visti in maniera diretta. Anche solo parlarne passivamente scatena dentro di me un grande magone, non oso immaginare per chi c’era, come te.

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      1. La sensazione prevalente era lo sconcerto, non si riusciva a decifrare, nel durante, cosa stesse accadendo. Se fosse un complotto ordito dalla politica (vedi servizi), quali fossero le reali intenzioni dei brigatisti. Furono anni di terrore, in cui si aveva paura a uscire, andare nei ristoranti…

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      2. Posso solo immaginare. Quei tempi praticamente sono ritornati: la storia non è una linea retta, ma un ciclo destinato a far riprovare certi stati d’animo.

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  2. Avatar OSVALDO LOCCIA
    OSVALDO LOCCIA

    Buongiorno Valentina, ho letto con interesse l’articolo perché l’argomento trattato è uno dei nodi principali della nostra storia repubblicana che ha segnato un forte cambiamento, una deriva fino ai nostri giorni. La tua rappresentazione, per chi studia storia recente e attualità politica è un prezioso documento da prendere in considerazione. Il contesto politico è cambiato per tanti fattori, la statura dei politici oggi avrebbe bisogno di grandi statisti come lo è stato Moro. Assistiamo sempre più ad una decadenza della politica che non ha saputo rispondere, efficacemente alle questioni aperte nella nostra società, ci siamo illusi che servissero personaggi dediti all’urlo, all’enfatizzazione delle paure per avere consenso. Tutto ciò è stato scardinato dalla diffusione del coronavirus per svegliare la coscienza di un popolo pigro e illuso. La lezione di Moro, della sua pacatezza, del dialogo è viva soprattutto per comprendere lo Stato sociale, costruito dal dopoguerra e che resta, malgrado il saccheggio perpetrato, un vanto per il nostro paese. Conoscere la storia è importante perché lezione di vita per evitare gli errori compiuti nel passato. Moro, come Berlinguer ed altri statisti si sono spesi per innalzare i diritti sociali con battaglie democratiche perle quali ne beneficiamo seppur in maniera ridotta nel nostro quotidiano. Concludo con una frase molto significativa di Marco Tullio Cicerone “La memoria ti diminuisce se non la eserciti”

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    1. Grazie per questo commento, conferisce sicuramente carattere a quanto ho scritto. ☺️

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